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Riduci
 
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Agli italiani piace scherzare

 

17/11/2012

 

Questo sabato mattina l’ho dedicato alla vaccinazione antiinfluenzale di alcune persone anziane per le quali sarebbe difficile venirle a fare nel mio studio. Non sono poche, e mi ci vorrà qualche giorno per andare un po’ alla volta da tutte. A casa di una mia vecchia paziente, impossibilitata a camminare, ho trovato la sua nuora inglese, che era venuta a trovarla. Abbiamo scambiato qualche parola; mi diceva che anche da loro in questo periodo sono in corso le vaccinazioni antiinfluenzali. Come in Italia, le persone vanno nella surgery (lo studio medico) del loro general practitioner (il medico di famiglia). E come da noi, chi non è in grado di muoversi viene vaccinato a casa.
Ma la signora si è meravigliata: “b
ut we send a nurse to the patient's home: our health service can’t afford to commit a doctor. It’s too expensive!(*). Non ho avuto il coraggio di replicare che da noi il Servizio sanitario non si può permettere di dare (o si permette di non dare?) ai medici di famiglia risorse sufficienti per assumere un’infermiera. In Italia, negli studi dei medici di Medicina Generale, c’è un’infermiera mediamente ogni 59 medici. Una volta lo dissi ad un collega ad un congresso internazionale. La risposta fu una risata: “Italians like joking!”: agli italiani piace scherzare.

 

(*) Noi mandiamo un’infermiera casa del paziente, il nostro Servizio sanitario non si può permettere di impegnare un medico: è troppo costoso.

 

    Massimo Tombesi,

    Medico di Medicina Generale, Macerata

    17/11/2012

 


 




A proposito di prescrizioni per principio attivo

 

18/08/2012

 

E' in vigore il decreto legge n. 95/2012 sull’obbligo di prescrizione dei farmaci per principio attivo, cosa diversa e che non ha nulla a che vedere con la promozione dei farmaci generici. Non contesto la logica di fondo e sono favorevole alla prescrizione per principio attivo, ma contesto la contraddizione con altre disposizioni di legge, la mancanza di considerazione dei potenziali rischi per i pazienti e l’arroganza nei confronti dei medici, a cui non sia concedono gli indispensabili margini di flessibilità. Un decreto che ha buone probabilità di essere sostanzialmente ridimensionato per le conseguenze che comporta.

 

E’ entrato in vigore venerdì 17 agosto 2012 (data che per i superstiziosi porta anche sfortuna) il decreto legge  n. 95/2012 sull’obbligo di prescrizione dei farmaci per principio attivo. I quotidiani, nel tentativo di informare i lettori su un provvedimento definito “rivoluzionario” che andrebbe sempre e solo a favore dei pazienti, hanno fatto una totale confusione tra prescrizione per principio attivo e prescrizione di farmaci generici, due cose concettualmente del tutto diverse.

 

Ogni farmaco generico o equivalente, così come quelli “branded” (detti anche "griffati"), è prodotto da una ditta, che affianca il proprio marchio al nome (può anche essere un nome di fantasia e non necessariamente quello del principio attivo). Prescrivere un farmaco generico non è perciò la stessa cosa che prescrivere per principio attivo, cioè senza specificare alcuna specialità medicinale che lo contenga e che sia registrata col suo univoco codice di autorizzazione all’immissione in commercio. Ne consegue, tra le altre cose, che la prescrizione per principio attivo non può essere inviata come ricetta elettronica, nella quale va invece tassativamente indicato il codice della specialità medicinale registrata, cioè di proprietà di un preciso produttore. La disposizione sulle ricette per solo principio attivo è quindi in contrasto con le disposizioni sulle ricetta elettronica, già attuata in diverse regioni, e le rende al momento tecnicamente impossibili[1]. Rimane da capire quale delle due disposizioni di legge si debba osservare, ma non è un brillante esempio di coerenza né di competenza: è palese che il ministro e i suoi consulenti tecnici semplicemente non se ne sono accorti, tant’è che non vi hanno fatto finora alcun riferimento.

 

La prescrizione per principio attivo rappresenta per i medici un onere non indifferente, perché richiede la disponibilità di programmi informatici idonei e in alcuni casi la riscrittura (nelle registrazioni computerizzate) delle terapie in corso, nonché la modifica di una modalità di prescrizione consolidata da sempre e improvvisamente vietata.

Il ministro Balduzzi ha scritto in un comunicato stampa che dei problemi di software dei medici non gli interessa un fico secco: facciano eventualmente ricette a mano. Nella sua infinita magnanimità ha però stabilito l’obbligo per le sole nuove prescrizioni e perfino riconosciuto – in una circolare - che potrebbe forse esistere – anche se "controverso e oggetto di ampio dibattito" - qualche rischio di confusione per i pazienti che prendono più farmaci e sono abituati a riconoscerli dalle scatole. La prescrizione per principio attivo espone infatti alla possibilità di ricevere dalla farmacia confezioni di volta in volta diverse pur se del medesimo principio attivo. Non si capisce perché questo non dovrebbe valere anche per le nuove prescrizioni, ed è sgradevole leggere un implicito giudizio squalificante dell’esperienza in proposito dei medici di famiglia, bollata come “controversa”, quando sono gli unici a poter esprimere un parere fondato. Eppure non è strano che a qualche paziente risulti difficile ricordare - per esempio - che sta prendendo “enalapril idroclorotiazide” e risulti più facile ricordare “Vasoretic” (il farmaco che lo contiene). Se poi in farmacia riceve di enalapril idroclorotiazide (per la pressione) una scatola identica, salvo il nome, a quella di ”pramipexolo” (per il morbo di Parkinson), c’è da sperare che non prenda tre volte, invece di una sola, il farmaco per la pressione e una volta, invece di tre, quello per il Parkinson. Si deve fare affidamento sulla capacità del paziente di ricordare nomi impronunciabili o almeno – in extremis - di riconoscere il colore e la forma delle compresse, peraltro diversi ogni volta che ritirerà una nuova confezione in farmacia, non necessariamente dello stesso produttore e che potrebbe – infine – essere identica a quella di un altro farmaco ancora che lo stesso paziente (o magari la moglie) sta assumendo. Se non ci avete capito nulla, è normale: basta capire che non è questione tanto banale. L’attenzione dei pazienti (anziani, ipovedenti, assistiti da badanti di affidabilità incerta, a volte analfabeti...) non si può né dare per scontata né imporre per decreto. Sarebbe stato più serio lasciare un po’ di discrezionalità ai medici curanti, riconoscendo che sono  gli unici veri esperti in questo campo e che ci sono motivi di sicurezza, non solo di risparmio. E non si venga a dire che "il paziente può chiedere il farmaco che vuole, pagando la differenza": significa lasciare in mano a lui, o chi per lui, complessità di giudizio che potrebbe non cogliere neppure, anzi, probabilmente più è in difficoltà e meno le capisce.

 

Naturalmente, dice sempre il ministro, il medico può indicare la “non sostituibilità” del farmaco (quindi della confezione) se ha un motivo (purché non sia la preferenza del paziente, motivo non ammesso): basta che lo scriva (IL MOTIVO!) sulla ricetta, assieme al nome del farmaco che vuole, e in più (anche se in questo caso è superfluo), anche il principio attivo che rimane sempre obbligatorio (una piccola vessazione gratuita). Ad esempio, una ricetta potrebbe - anche se a me sembra ridicolo - essere redatta così:

 

Vasoretic (enalapril idroclorotiazide);
non sostituibile perché temo che il paziente si confonda

 

Semplice, no? E anche molto originale nel panorama internazionale.

 

Peccato che in questo strampalato Paese un medico medio debba fare fin oltre 100 ricette al giorno, vista la durata esigua delle confezioni (e il sovraccarico di lavoro che ne deriva), per cui risulta leggermente complicato mantenere un database di informazioni comprensivo delle motivazioni - da annotare a mano sulla ricetta indicandone la non sostituibilità - per la prescrizione di specialità con marchio ai pazienti potenzialmente confusi o per qualche altro motivo. Quasi non si riesce a crederci.

 

Di fronte alle perplessità suscitate dal dover tradurre nel corrispondente principio attivo un nome branded, qualcuno ha anche detto che sarebbe stupefacente supporre che i medici non sappiano quale principio attivo sia inserito in una specialità con nome di fantasia. Naturalmente si tratta di un modo “elegante” di dare degli ignoranti ai medici (con il retropensiero compiaciuto che a volte saranno effettivamente in difficoltà[2]) senza tener conto del fatto che una seppur minima probabilità di errore è intrinseca ed inevitabile ogniqualvolta si debba operare il passaggio da un nome ad un altro. Il “rischio clinico” di cui tanto si parla è anche conseguenza di cose di questo genere. Se solo capitasse una volta su 1.000 di sbagliare (o non si può sbagliare mai?), avremmo decine di migliaia di cittadini italiani che prenderanno un farmaco al posto di un altro. Il prof. Garattini, autorità riconosciuta in ambito farmacologico, in un suo articolo in prima pagina sul Messaggero del 17 agosto[3], per sostenere la prescrizione per principio attivo ha portato l’esempio del “Tavor”, un farmaco che contiene il principio attivo lorazepam. Peccato che lui abbia scritto “oxazepam” (un altro principio attivo contenuto in un altro farmaco, non nel Tavor). Anche se non può essere un errore di stampa, si tratta certo solo un banale lapsus; se però è successo a lui… tanti auguri alla massa immensa di pazienti che assumono farmaci.

 

In alcuni casi, la prescrizione per solo principio attivo è impraticabile: chi è esperto del campo (quindi NON il ministro né i suoi tecnici) può provare a districarsi con le numerosissime formulazioni di insulina (scusate se è poco…) in cui il dispositivo erogatore rimanda ad una precisa specialità, griffatissima, e guai a cambiarla, si rischiano problemi seri. 

 

Per quanto mi riguarda, no problem (l’inglese, come per “spread”, “spending review” e simili è d’obbligo oggi come mettersi la cravatta in certe occasioni, e quindi mi adeguo): sono favorevole in linea generale alla prescrizione per principio attivo, e dato che nella mia regione non facciamo ancora ricette elettroniche, già da qualche anno prescrivo principalmente per principio attivo – oculatamente e non certo sempre - e finora l’unico problema che sentivo era proprio la mancanza di chiarezza sul fatto che fosse possibile (qualcuno ne dubitava): oggi almeno so, finalmente, che si può fare, anzi si deve fare e sempre.

Però io ci ho messo un po’ a far capire ai pazienti (dei cui tempi e capacità di comprensione tengo conto professionalmente, non solo per rispetto) che debbono abituarsi a leggere il nome del farmaco e non più a guardare la scatola. E questo è un lavoro impegnativo, che si ripropone ogni volta, ad ogni nuova terapia, che non è fattibile per tutti e a volte dall'esito incerto: in poche parole, è questione da lasciare alla professionalità del medico e non a decisioni drastiche uguali per tutti.

Quasi sempre (non sempre) i pazienti hanno accettato di buon grado la prescrizione dei generici, ma non di rado mi chiedono di prescrivere sempre quello della medesima ditta farmaceutica: anche leggendo il nome, la scatola in cui il principio attivo è confezionato mantiene sempre un forte effetto di aiuto, perché certe cose – come l’assunzione regolare di farmaci - divengono automatiche e poiché ogni scatola è sempre la stessa, almeno finché non è finita, l’automatismo si rinforza. Ora pare che non lo potrò più fare (l'espressa richiesta del paziente è ammessa solo in farmacia, non sulla ricetta), salvo mettermi a scrivere “motivazioni” a mano.

Pare che in Gran Bretagna le prescrizioni di generici (non di principi attivi) siano l’80%, in Germania il 50%...[4]. Chissà perché non il 100%, come si pretende da noi; sarebbe stato più serio lasciare un margine di flessibilità[5].

 

Spero che qualsiasi futuro ministro – tecnico o politico che sia – dia un po’ più credito a chi lavora a contatto con le persone: non sono tutti lazzaroni in combutta con le ditte farmaceutiche.

 

 

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(1) E' certamente possibile cambiare i sistemi informatici per consentire l'invio di ricette elettroniche senza la codifica di una specialità medicinale registrata, ma questo implica: a) o l'invio della denominazione del farmaco in formato testo libero, oppure b) la riscrittura dell'intero prontuario farmaceutico usando una codifica per ciascun principio attivo (ad esempio l'ATC) ma anche per ciascuna formulazione disponibile di ciascun principio attivo, compresi i diversi dosaggi, il numero di pezzi per scatola, ecc. La prima soluzione equivale a rendere inutilizzabili i database centrali del ministero e privare del tutto di senso l'invio elettronico, che risulterebbe informaticamente illeggibile; la seconda soluzione richiede una progettazione centrale, la distribuzione e l'aggiornamento di un prontuario farmaceutico di nuova concezione (in questi termini mai realizzato in alcun paese del mondo), la modifica dei database regionali e centrali, la modifica conseguente del funzionamento dei web services con cui dialogano i programmi informatici dei medici, il loro aggiornamento e ovviamente adeguati periodi di test e debugging (la delicatezza della questione impone margini di errore intrinseci ai sistemi informatici tendenzialmente nulli). I tempi non potrebbero che essere lunghi, i costi (anche per i medici) sono da definire, e il risultato effettivo sarebbe certamente imprevedibile. 

(2) I medici di Medicina Generale prescrivono farmaci per tutte le patologie (anche quelli suggeriti in origine da specialisti), quindi debbono conoscere un numero di principi attivi (e nomi branded) largamente maggiore di quelli usati da qualsiasi singolo specialista. 

(3) http://www.aaroiemac.it/site/Allegati/RassegnaStampa/RS_2012/RS_AGO_2012/120817_Rassegna.pdf

(4) Assogenerici: Mercato internazionale 2010

(5) Peraltro è difficile pensare che in altri paesi si riterrebbero accettabili imposizioni di questo tenore ai medici; il motivo della maggiore diffusione dei generici in Gran Bretagna (nessun altro paese europeo arriva al 50%), a parte certamente l'assenza di pregiudizi e rapporti normali (cioè rispettosi e di reciproca fiducia) tra medici e istituzioni, sta anche nella consegna, da parte delle farmacie, di confezioni ad hoc per ciascun paziente, con etichetta scritta dal farmacista, comprensiva delle modalità di assunzione specificate dal medico nella ricetta. Il tutto in un barattolo, eliminando quindi la confezione originale, e per quantitativi adeguati (anche di diversi mesi: il tempo del medico ha un costo e quindi viene valorizzato al meglio: non ha senso che un paziente debba tornarci dopo 3-4 settimane per riavere una ricetta di un farmaco che prende da anni e prenderà tendenzialmente a vita).

 

 

    Massimo Tombesi,

    Medico di Medicina Generale, Macerata

    18/8/2012

 

 

 



Il Pronto soccorso in fiamme e il medico di famiglia-pompiere

 

24/2/2012


Le vicende di questi giorni riguardanti i reparti di Pronto soccorso degli ospedali, stanno suscitando polemiche sulla Medicina Generale (MG), ritenuta inefficiente o latitante nell’occuparsi di pazienti che affollano i reparti come codici bianchi e verdi.

 

E’ curioso (a voler essere buoni, perché è in realtà un errore metodologico grossolano) che l’efficienza della MG si valuti in base a quanti ne arrivano al P.S., senza chiedersi di che percentuale si tratti rispetto al numero complessivo di pazienti visti e trattati dai medici di famiglia. 

La semplicistica lettura si combina bene con una semplicistica proposta di soluzione: i medici di medicina generale siano disponibili 7 giorni alla settimana per 12 ore al giorno nei loro studi, per intercettare questa vasta domanda di cure impropriamente afferente a luoghi dedicati alle “vere” urgenze ed emergenze.

 

Due semplici calcoli per valutare meglio l’entità del problema. Secondo il ministro Balduzzi, i reparti di Pronto soccorso italiani effettuano 23 milioni di visite all’anno(1), e secondo i colleghi ospedalieri, il 20% sono codici bianchi e il 60% sono codici verdi, cioè accessi ritenuti “impropri”, che non ci dovrebbero essere. Bene, i 47.000 medici di medicina generale italiani hanno in media circa 8 accessi per assistito all’anno (una trentina di pazienti al giorno). A conti fatti, con una media di 1.000 assistibili per medico, si tratta di 376 milioni di accessi all’anno, senza contare i 7.500 pediatri (che misteriosamente rimangono esclusi dalle polemiche). Se i medici di medicina generale intercettassero tutti i codici bianchi e almeno metà di quelli verdi (giusto per lasciare al Pronto soccorso almeno la traumatologia) la metà dei pazienti visti nel Pronto soccorso andrebbe dal proprio medico e in un batter d’occhio il sovraffollamento da accessi impropri sarebbe risolto. Circa 12 milioni di visite in più rimarrebbero in carico alla Medicina Generale, ma a conti fatti si tratterebbe di un aggravio di lavoro francamente irrisorio rispetto a quello abituale. 12 milioni di visite divise per 47.000 medici di medicina generale fanno infatti 255 visite in media all’anno: anche escludendo i giorni prefestivi e festivi si tratta di un solo paziente in più al giorno da visitare per ogni medico. Si accomodino, verrebbe da dire, non ce ne accorgeremmo neppure, al massimo ci vorrà un’altra sedia in sala d’attesa.

 

Naturalmente nessuno fa conti del genere, e così esce una presunta soluzione, bizzarra e incredibilmente sproporzionata: apertura degli studi dei medici di medicina generale per 12 ore al giorno, sette giorni alla settimana, da parte di medici riuniti in “aggregazioni” più o meno “funzionali”, con una terminologia la cui vaghezza fa intuire che nessuno sappia di cosa sta parlando (in Italia è normale quando si tratta di Medicina Generale) e che cosa comporti ad esempio in termini logistici e di infrastrutture (ad esempio di comunicazione), per non parlare di innumerevoli altre conseguenze, che potrebbero perfino portare ad un aumento degli accessi al Pronto soccorso, ad esempio se si riducesse il lavoro sui pazienti cronici e a maggiore rischio. E’ chiaro che 12 ore di studi medici aperti e aggregazioni funzionali tra più medici per ottenere la relativa copertura, rappresenterebbero una vera e propria rivoluzione dell’assetto organizzativo della Medicina Generale. Ma ci si deve allora anche chiedere se una rivoluzione del sistema delle Cure primarie possa essere pensata con lo scopo di vedere (anzi, “intercettare”) un paziente in più al giorno, cioè con il precipuo scopo di risolvere i problemi del Pronto soccorso. Che la Medicina Generale non sia in Italia particolarmente valorizzata, e anzi sempre più subalterna ed emarginata nelle politiche sanitarie e in tutto ciò che ci gira intorno, non è una novità, ma che possa essere finalizzata a risolvere i problemi di altri, a costo di rivoluzionarla senza alcuna considerazione delle sue più specifiche funzioni, è un concetto abbastanza innovativo.

 

Rimane ancora da chiedersi se almeno potrebbe funzionare. La risposta è semplicemente “no”. Nessuno ha mai dimostrato che una maggiore disponibilità oraria dei medici di medicina generale determini una riduzione di accessi al Pronto soccorso (vi sono anzi esperienze contrarie), e alla mancanza di prove va aggiunto anche che è del tutto inverosimile che ciò possa accadere, per lo meno in misura apprezzabile. Negli orari in cui si concentra il lavoro dei medici di medicina generale (mattino e pomeriggio), non sembra che gli accessi al Pronto soccorso crollino di numero come ci si dovrebbe aspettare. Le persone ci vanno per propria autonoma decisione, non perché “non trovano” il loro medico, ma perché ovviamente non fanno una valutazione scientifica del loro stato, e pensano proprio di aver bisogno di un Pronto soccorso, vuoi per una percezione di potenziale gravità, urgenza, o rischio dei sintomi che presentano, vuoi perché ritengono di aver bisogno di esami diagnostici indisponibili presso il loro medico: una lastra, un’ecografia, delle analisi, una consulenza specialistica, o magari perché sperano di poterli effettuare senza i tempi biblici delle smisurate liste di attesa.

Se a questo si aggiunge che ipotetiche “aggregazioni” di medici di medicina generale non fornirebbero al paziente alcuna garanzia neppure di trovare il proprio medico curante (l’unico vantaggio ipotizzabile rispetto al Pronto soccorso), la soluzione si manifesta per quello che realmente è: un’illusione frutto dell’incapacità di comprendere i determinanti di un fenomeno che muove milioni di persone all’anno, in qualunque paese lo si vada ad esaminare, a fronte di un evidente sottodimensionamento dei servizi di cui invece non si vuol prendere atto.

 

Le accuse alla Medicina Generale di rendersi irreperibile nel momento del bisogno sono false, anche se ci può forse essere una differenza tra quanto accade in media nelle grandi metropoli (che è sotto gli occhi di tutti ed in particolare dei media) e nel resto d’Italia o nelle zone rurali, dove si lavora duro, sempre nell’ombra, e un medico irreperibile sarebbe un medico senza pazienti. Innegabilmente la Medicina Generale si è fatta carico negli ultimi 20 anni del portato di un rilevante processo di deospedalizzazione, condotto in termini riduzione di ospedali, di posti letto e di lunghezza delle degenze. Lo ha fatto senza vedersi destinata alcuna risorsa aggiuntiva rispetto al passato, nessun investimento né economico, né in servizi, né in incentivi per prestazioni che richiedano strumenti diagnostici, e neppure in agevolazioni fiscali (ad esempio, un medico di medicina generale che investe nella propria professione per offrire più servizi ed assume personale dipendente paga l’Irap, a differenza di chi non lo fa).

Correttamente, la Medicina Generale è stata negli ultimi anni identificata come naturale destinataria dell’onere della cronicità, dell’assistenza agli anziani fragili, delle cure programmate, della medicina cosiddetta di iniziativa per il monitoraggio delle prevalenti condizioni di rischio, specie cardiovascolare e metabolico. Ma in Italia c’è un’infermiera ogni 39 medici di medicina generale, e una segretaria ogni 5, situazione impensabile in qualunque altro paese europeo e forse del mondo. Ora, oltre che occuparsi di cronicità, cure programmate e domiciliari, ci si chiede anche l’esatto opposto: di fronteggiare l’acuzie che si rivolge “impropriamente” al Pronto soccorso, organizzandoci per coprire la bazzecola di 12 ore al giorno (c’è da scommettere, ad “isorisorse”), il tutto in mancanza di qualunque presupposto logistico e funzionale per aggregarsi, e svolgendo quindi anche un ruolo tipicamente di medicina di attesa. Altrimenti il Pronto soccorso soffre. Verrebbe voglia di rispondere male, ma siccome è d’obbligo essere educati, basti chiarire che quello che si sta cercando non è un Medico di Medicina Generale, ma Superman, un alieno che resiste a tutto – perfino alle scemenze – essendo notoriamente vulnerabile solo alla kryptonite verde. Non resta che fare i migliori auguri per la ricerca, sempre più difficile dato che entro pochi anni mancheranno in Italia molte migliaia di medici di medicina generale: troppo poco attraente è oramai questa professione per i giovani medici che non ambiscono certo ad un lavoro così incompreso e maltrattato.

 

    Massimo Tombesi,

    Medico di Medicina Generale, Macerata

    24/2/2012

 Ascolta l'intervista che mi è stata fatta il 28/2/2012 da Radio3 Scienza sull'argomento

Testo publicato anche su Partecipasalute e su Occhio Clinico

 

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